lunedì 13 giugno 2011

Pedalare nella pioggia

Scendo dalla mountain bike con rabbia: troppa salita, troppo vento; ma anche troppo computer, prima, e troppo stare al chiuso. La sospingo per la decina di metri che mancano alla cima, risalgo. Investito da una raffica di vento di potenza inconsueta sono costretto a rizzarmi sui pedali, a piegarmi, a voltarmi per poter respirare. Il fracasso è assordante, rinforzato dal rapido passaggio della corrente d'aria nelle fessure degli spartivento e dei fermavalanghe, dal fischio tra le dita aperte, tra i ghirigori di un'enorme croce, e dai rimbombi delle balaustre e dei pennoni.
Appoggio la bicicletta sul prato, apro le braccia contro il vento, la giacca sintetica gonfia come una vela sul punto di strapparsi, intirizzito, investito dal deciso infittirsi del temporale estivo. Lo stallo è completo e stordente, lungo e autonomo, interrotto, solo allo stremo, dal bisogno di ossigenare il cervello. Basta. Di colpo sono nauseato dall'insieme. Non lo credevo possibile, ma succede. Di colpo ne sono saturato.
Percorro con imprudenza il sentiero, derapando, strisciando, sgretolando, le dita delle mani formicolanti. Supero una fontana, una baita, un ponte di pietra: il vento si placa, le gocce scompaiono, il fondo si spiana. Imbocco varianti meno sconnesse, meno infide, meno ostili, fino alla strada asfaltata dove posso liberare il mezzo meccanico: rumori ridotti a un leggero fruscio, minimi attriti, colori mischiati del bosco, gli alberi a protezione, tra verdi, grigi, azzurro e marroni. Il paese deserto.