mercoledì 21 dicembre 2011

Sempre e solo New York

Avanti ancora, su, verso la Columbia, sbalordito dalla cattedrale, da ragazzi e ragazze, dall'atmosfera, dal fascino del campus, voglia di ricominciare da lì, esattamente da quell'apparenza.
Proseguo verso Harlem, mentre il sole rompe il grigio, mi fa sentire accaldato, fuori posto, esausto, spezzato, in definitiva, forse, non più invincibile.
Passo per la zona più degradata di Harlem, metabolizzo i conseguenti cambi di atteggiamento di vita, perdo anche il ricordo del mio stato di benessere, si alterano pensieri e fisico, si insinua debolezza, lentezza di parola, sete, insorgono fastidiosi crampi a gambe e addome. I quartieri appaiono inospitali, difficili da conquistare, probabilmente pericolosi.
Trovo l'unica strada diagonale, so che raggiunge l'angolo nord-ovest del parco, la percorro osservando per istanti carrelli di supermercato colmi di ferraglia e rottami, murales cupi e colorati, luoghi di culto indefinibili, mi distraggo, perdo l'orientamento, mi ritrovo nel cuore di Harlem, nel lato sbagliato delle sue strade, dove ogni cosa, la materia stessa, è decadenza, maleodore, disagio, freddo e fame.
Rifiuto soluzioni elementari quali un taxi o un mezzo pubblico, mi dico "Ce la faccio comunque", mi sforzo, spiazzo i punti cardinali, ritrovo la giusta direzione, inizio a scendere per il lato ovest del parco, contando decine di strade che devo attraversare, compitandone le targhette di metallo, 117th, 116th, 115th, 114th, fino alla 57th, alla stanza d'albergo, al traguardo irraggiungibile.

giovedì 8 dicembre 2011

Prima che finisca

Rischio d'aver perso un inverno. Me ne accorgo, mi da fastidio, cerco uno sfogo: sto per scagliare una grossa rivista contro il muro. Mi trattengo grazie all'inaspettata sbiadita immagine di nebbia insistente in luoghi lontani. Nebbia capace d'offuscare la dura e spessa neve che mi ha accolto per anni all'uscita dall'aula, nebbia che mi ha più volte impedito anche solo di intravedere, dal vialetto degli Istituti dove mi trovavo, quello successivo, concedendomi di riconoscere le persone, quando lo potevo, solo allo sfioramento, senza protezione e con la guardia abbassata. Studio, pratica nei laboratori, dissezioni, comparazioni, dimostrazioni, immagini, proiezioni, discussioni, approfondimenti, turbamenti, timori, certezze, senso d'isolamento, freddo penetrante, voglia di creare ovunque un'atmosfera ostile in cui agire. Al meglio. Al diavolo tutto, se appare dell'altra neve; un'ultima volta, prima dei colori.

lunedì 10 ottobre 2011

Dire, fare, bruciare

Per gli interi tre mesi dell'inverno del secondo anno di Università mi arruffai volontariamente su un modellino di nave in legno. L'avevo costruita qualche anno prima, svogliatamente e di fretta. Non ne avevo sgrezzato bene il fasciame che, invece di presentarsi liscio e ben curvo dove erano le convessità e le concavità di poppa e di prua, risultava scalinato e asimmetrico al tatto e alla vista. In coperta grezzi accessori e grate incomplete. Mancava tutto il cordame, la scialuppa non era verniciata e aveva grandi remi. Minuscoli fiori bianchi rampicanti, a tempera, mascheravano il mordente mal dato agli alberi macchiati di colla. Dovevo rifarla: due sere prima avevo visto lei per l'ultima volta. Un lavoro talmente odioso e lontano dal mio modo di pensare, che riuscivo ad essere nervoso e scontento già al solo pensiero di intraprenderlo. Dovetti limare di nuovo l'impalcatura dello scafo e traguardare contro luce più volte le ordinate. La sera prima mi aveva telefonato per sapere il numero del mio amico. Non avrei più ascoltato la sua voce. Col passare dei giorni lo scheletro della nave divenne tecnicamente accettabile, tuttavia i miei compagni di stanza odiavano quanto me quella strana penitenza. Almeno due delle cinque sere che restavo in città le passavo chino su quei legni, a inalarne le polveri, a subirne le schegge, a maledirne la fragilità. E parlavo, parlavo, anche da solo; o ascoltavo la radio. Uscivamo sempre insieme, noi quattro: l'amico e i tre compagni. Quando tornavamo ci accoglieva un odore acre di segatura e colla, e avvertivamo piccoli chiodi incastrarsi nelle suole.Dopo un mese terminai di applicare il fasciame. Lo levigai con cura usando carta vetrata via via più delicata. Con segatura fine impastata a colla riempii i rari interstizi tra le piccole assi. E poi lisciai ancora. Non mi piaceva il caldo della carta sfregata fino a far male, né l'odore pungente, quasi di bruciato. E neanche la simmetria delle due fiancate, né le curve ben fatte. Pure continuai per tre mesi: il ponte, i pilastri, la scialuppa rifatta. Parlavo meno, a ben osservare. Ascoltavo molto la radio, in effetti. Guardavo l'amico leggere le lettere di lei: stava sdraiato sul letto, immerso in fumo azzurro. Con una fetta di torta, o un panino.
Poi le grate, le balaustre, il timone, gli alberi ben lisci e rastremati. Uscivamo con i guanti e le sciarpe. Al cinema. O al biliardo. Più spesso a trovare compagni di studi. O compagne. Una sera lei andò a trovare il mio amico. Io non la incontrai, perché sporco di colla e segatura. Lui le era sceso incontro afferrando il cappotto, e si erano allontanati senza salire.
Poi le corde, di tre misure. Intrecciare le scale. Tenderle. Quando fu terminata, a metà marzo, ebbi voglia di incendiarla. Di prendere la cinepresa e filmarne al rallentatore la disfatta. Ma non ne feci nulla. Decisi di regalarla. Non la regalai. La misi in alto allo scaffale dei libri.
Lui lesse due lettere, una sera. Di lei, ovviamente. L'immagazzinai in alto, nell'armadio. Mi parve bellissimo riporre pinze, aghi, colla, pezzetti di legno, chiodi e avanzi in una cassetta da non aprire più. Era quasi primavera.

venerdì 30 settembre 2011

Se piove

Chiusa la porta il mondo si restringe in manifesti arricciati, ingrandimenti ed elaborazioni fotografiche, scritte a rilievo, intrecci di fiori e rampicanti dipinti, piastrelle a geografia complessa e inestricabile, labirintiche, finestrelle sbarrate su vetri opalini, composizioni di fiori e infinite minuscole bottiglie di liquore sigillato. Troppo poco, a un primo sguardo: un gioco a incastri, indefinibile, casuale amalgama, supporto statico a idee che non arrivano, neutro fondale privo di annotazioni, segni o nuove sceneggiature elementari. Chitarra elettrica accordata e amplificatore senza cavo.

domenica 25 settembre 2011

Frittelle e gesso

Sotto casa, grande giardino senza segreti, nebbia quasi scomparsa. Avverto luce e odori della cena, sono libero: conclusi studio, ripetizione, lista della nonna, lista della mamma; il cancello sprangato. Un po' di freddo alla zona scoperta delle gambe, sotto lo spesso cappotto. Amichevole suono di ghiaia gelata. Sono in casa. Di nuovo bambino. La terrina con l'impasto che aspetta di essere mescolato, a lungo. Anche questa volta il nonno mi concede il privilegio. E' tardi, mi sento stanco. Ma è uno dei miei incarichi preferiti. Dopo cena... frittelle con le mele. Profumo, tepore, piacere. Sonno pesante.
La colazione di fretta. La lunga strada con la cartella di cuoio stracolma. Neve ammucchiata. Aula stipata di banchi. Odore d'inchiostro e di gesso.

giovedì 22 settembre 2011

Inaugurazione Sabato 24 settembre 2011
Ore 9,30 -19,30
Via Alberto da Giussano, 2 - Legnano (MI)

martedì 6 settembre 2011

Un bel tuffo dal pontile

Basta decidersi e non tenere conto che è proibito: ci si alza di scatto dalla sdraio e si fugge verso il molo, sorprendendo chiunque. Si corre per qualche stabilimento con accelerazioni e rallentamenti depistanti, stampando passi profondi nel bagnasciuga, e si guadagna l'imbocco del pontile (se si vuole, un rapido sguardo, ma rapido, al Forte). Gimcana tra passanti e bagnanti sbalorditi che affollano il lunghissimo trampolino di lancio e via per la calda striscia grigia e granulosa, avventandosi senza alcun rallentamento nella simulazione d'abisso che si spalancherà davanti fra non molti secondi, gridando compostamente, mani giunte a fendere l'etere, in plastico tuffo, penetrando come freccia in infinita massa d'acqua salata, tra grosse bolle d'aria, intrappolate in mezzo ai flutti provocati, e mulinelli fluidi a varia potenza, gradazione, inclinazione e conicità.

venerdì 29 luglio 2011

Mercury on air

Ciò che non hanno potuto la musica del passato, l'alternarsi estenuante di classici, crescendi, pianissimo, fughe e adagi, la fusione perfetta di suoni e voci, versi e cori, il fragore di timpani e tamburi, il vigore di braccia esperte, le immagini, i filmati, la valanga di parole e sovrastimolazioni, l'isolamento, le sinfonie e i concerti, la fede, ciò che non ha potuto tutto questo, dunque, riesce ad ottenerlo un guazzabuglio di note ripetute fino allo sfinimento, ai limiti della saturazione, cicliche, random, scomposte, ascoltate con una smorfia contro le avversità, reiterate su distese di asfodeli gialli percorse da farfalle multicolori grandi come aquile, alla ricerca del ruolo principale, di un provvedimento eclatante, eccessivo, fino alla fine del tempo, asso tra le scartine, in attesa vigile, ricominciando un nuovo conteggio alla rovescia a ogni termine del precedente, senza più paura né affanno, anzi con curiosità, con foga, con bramosìa, in attesa della gratificazione e di un compenso più vistoso del pattuito, di qualche movimento, di autonomia, e di un nuovo desiderio.

lunedì 13 giugno 2011

Pedalare nella pioggia

Scendo dalla mountain bike con rabbia: troppa salita, troppo vento; ma anche troppo computer, prima, e troppo stare al chiuso. La sospingo per la decina di metri che mancano alla cima, risalgo. Investito da una raffica di vento di potenza inconsueta sono costretto a rizzarmi sui pedali, a piegarmi, a voltarmi per poter respirare. Il fracasso è assordante, rinforzato dal rapido passaggio della corrente d'aria nelle fessure degli spartivento e dei fermavalanghe, dal fischio tra le dita aperte, tra i ghirigori di un'enorme croce, e dai rimbombi delle balaustre e dei pennoni.
Appoggio la bicicletta sul prato, apro le braccia contro il vento, la giacca sintetica gonfia come una vela sul punto di strapparsi, intirizzito, investito dal deciso infittirsi del temporale estivo. Lo stallo è completo e stordente, lungo e autonomo, interrotto, solo allo stremo, dal bisogno di ossigenare il cervello. Basta. Di colpo sono nauseato dall'insieme. Non lo credevo possibile, ma succede. Di colpo ne sono saturato.
Percorro con imprudenza il sentiero, derapando, strisciando, sgretolando, le dita delle mani formicolanti. Supero una fontana, una baita, un ponte di pietra: il vento si placa, le gocce scompaiono, il fondo si spiana. Imbocco varianti meno sconnesse, meno infide, meno ostili, fino alla strada asfaltata dove posso liberare il mezzo meccanico: rumori ridotti a un leggero fruscio, minimi attriti, colori mischiati del bosco, gli alberi a protezione, tra verdi, grigi, azzurro e marroni. Il paese deserto.

mercoledì 25 maggio 2011

Dialogo dopo che nessun essere umano riesce più a nascere

“Senti", mi dice una sera lei, pochi mesi dopo l'inizio del fenomeno, con fare preoccupato, la mano destra infilata tra i capelli, a tormentarli e arrotolarli, la sinistra a soppesare un grosso volume d'enciclopedia, tra fogli di appunti e libri più piccoli dalle pagine sottili.

“Sì?” rispondo, non distogliendo gli occhi dal televisore.

“Il cane può vivere fino a diciotto anni al massimo, più comunemente fino a dieci anni, e prima di morire di vecchiaia diventa pigro, svogliato, si appesantisce, i denti ingialliscono e si presentano logori, i sensi si attutiscono...” continua, consultando annotazioni misteriose.

“Denti gialli e sensi attutiti? Stimolante!” rispondo distrattamente.

“Sto parlando con te!” cerca di interessarmi.

“Pigro e appesantito”.

“Accidenti, ho passato la serata a studiare la vita di tutti gli animali possibili, mi ci sto rovinando gli occhi, cerco di capire chi ci terrà compagnia in futuro, chi ci sopravviverà...
” “Dieci, o diciotto anni al massimo”.

“Ehi!
 Sto parlando con te, voglio la tua attenzione totale. Devi aiutarmi a comprendere, desidero dei commenti”, si alza e si frappone tra me e il colorato schermo fluorescente, “Ho bisogno del tuo parere!" mi grida in un orecchio.

“Cani, va bene, cani. So che hanno gestazioni di nove settimane, che le femmine vanno in calore due volte all'anno, di solito in febbraio e in agosto...
”
“Fermati, lo so, l'ho letto. Non è questo che voglio da te, ma renderti partecipe delle specie in estinzione. Voglio che ci pensi seriamente, mi dice sillabando, mentre spegne il televisore”.

“Lo potevi dire subito, ti ascolto, prosegui. Siamo rimasti ai cani, se non ricordo male”, dico sottovoce, schiarendomi la gola.

“Abbiamo finito, con i cani!”

“Che mi dici dei cavalli?” suggerisco, appoggiandomi allo schienale della poltrona e abbassando le palpebre.

“Trenta, o al massimo quarant'anni di vita”.

“E... galline? adoro il pollo arrosto; fino a quando potremo permettercene?”

“Per dieci o al massimo trent'anni, secondo le razze, se le vuoi appena giustiziate, altrimenti ci saranno quelle strasurgelate”.

“Giustiziate? sii meno cruda, per favore, e lascia perdere le carni surgelate, le odio. Piuttosto, che mi dici dei cinghiali e dei caprioli? squisiti, col sugo”.

“Stiamo parlando di specie che si estingueranno, non siamo al ristorante, e nessuno ti ha chiesto ordinazioni! il cinghiale fra vent'anni, comunque, e il capriolo fra dodici o quindici anni. Soddisfatto?”

“Un vero pozzo di sapienza!”

“Mi sono documentata”.

“Già . E lepri e conigli?”

“Dieci o dodici anni le lepri, sette o otto i conigli”.

“Stai pronta: e... stambecchi, daini e camosci?”

“Trenta, quindici venti, venti venticinque”.

“Che razza di risposta sarebbe?
”
“E la tua, che razza di domanda?”

“Senti, e se la smettessimo?”

“Ci sopravviveranno le tartarughe: vivono anche fino a trecento anni. E gli elefanti, che vivono più o meno come noi, e pappagalli, e falchi”.

“Falchi?”

“Già, ho letto che possono vivere fino a centosessant'anni!”

“E cosa mangeranno, secondo l'enciclopedia?”

“Che vuoi dire?”

“Che sono carnivori! non mi risulta che si nutrano di prede predisposte a vite centenarie”.

“Ma... l'enciclopedia non prevede gli ultimi avvenimenti!”
“Poco aggiornata! non credo che i falchi diventeranno vegetariani per compiacerla, non credo proprio. Temo che ci dovremo accontentare della compagnia di elefanti decrepiti, tartarughe incartapecorite e pappagalli arteriosclerotici”.

“Grazie dell'aggiornamento!
”
“Di niente”.
“Ah, qualche lato positivo ci sarà, in tutto questo”.

“Cioè?”

“Fra pochi anni niente più vermi, topi, ragni, api...
”
“Fermati, va bene, ne sai più di me, mi arrendo, ci ho provato!” mi urla mentre mi ammutolisce fisicamente con entrambe le mani. “Hai un segreto?”

“Un'enciclopedia nel mio studio, e qualche ora libera la settimana scorsa!”

“Ti odio!”
 “
"E non avremo più leoni fra quarant'anni, e rospi, e corvi fra una settantina d'anni, e gatti fra un quarto di secolo, e cervi fra vent'anni, e volpi e lupi fra quindici, e chiocciole fra otto, e colombi fra trenta e...
”
“Basta!” esclama prima di soffocarmi in un abbraccio ambiguo.

lunedì 2 maggio 2011

Dovrei

Mi compiaccio, come solo io riesco a fare, del respiro regolare e del ritmo non affrettato delle mie pulsazioni, inspiro a fondo solo quando ne sento il bisogno e questo mi distende la mente, mi offre certezze: a un'azione corrisponde una reazione corretta, ogni cosa funziona a dovere. Decido di deviare, di costeggiare una stalla, chiusa, e due piccole costruzioni dal tetto in sasso, con la sola porta; il sentiero, dall'altro lato, ha una linea elettrica sostenuta da pali irregolari. Immagino di ricavare delle finestre e un caminetto, in una delle costruzioni, e di collegarci l'elettricità: è isolata, lontana dal paese quanto basta, e ben inserita nello scorcio di montagna, di bosco e di torrente. Un posto dove lavorare molto o riposare in pace. Dovrei installarmi in quel luogo, con un portatile, dei fogli di carta, la chitarra, qualche colore, perché no, e libri. Lì carpire i segreti della vita, lì elucubrare e magari dipingere, suonare, pensare, scrivere qualcosa di importante; che ne so?

mercoledì 6 aprile 2011

Concerto

Al termine di una lunga strana giornata, concerto non previsto in cattedrale svizzera; biglietto, l'ultimo, comprato d'impulso senza calcolare il cambio. Il modesto torpore che si è impadronito della mia mente (un po' stanca, devo ammettere, lo devo) ha avuto un effetto inusitato: la massa degli orchestrali si è come agglomerata in un insieme ondeggiante a ritmo, tanto da farmi confondere la giovane promessa bionda con il maturo orchestrale brizzolato, con la rossa esile violoncellista, con il baldo ragazzo moro ai timpani, con la prorompente primo-violino, con la delicata e ispirata secondo-violino e così via, in un insieme ben plasmato e compenetrato, di un colore seppia complessivo e di buon profumo, in cui onde di mani e flussi di braccia, ondeggiamenti di chiome e andirivieni di archi, oscillazioni di oboe e vibrazioni di percussioni, insieme a colpi ritmati di bacchetta e fremiti di tamburelli si trasformavano in una specie di oceano musicale ribollente e ammaliante.
Così, per quegli inesplicabili intrichi che possono impadronirsi dei meccanismi più delicati del cervello, ho pensato ai flussi delle parole sullo schermo del computer, al chiarore dei movimenti delle pause e ai ritmi della battitura sulla tastiera nel corso di un collegamento ben riuscito.
Prevengo una possibile domanda - "ma cosa vuol dire tutto questo?" - dichiarando: "che ne so!"

lunedì 21 marzo 2011

Tema complesso.

Sole nitido contro oggetti polverosi, radente la mano, vapore d'inchiostro profumato, maestro severo, cattedra spoglia. Labbra scandiscono singole lettere, titolo di tema senza spunti, disperso in pulviscolo abbagliante. Movimenti incoerenti, afinalistici, senza ritmo. Lavagna solcata da tracce a spirale di cancellino, feltro bagnato. Luce, calore, riflessi vividi. Volto di maestro indeciso, chiaro, trasparente: niente materia.
Scrivere, spaventato, attento, forsennato, fogli su fogli? Fiasca di vetro a rabboccare calamai. Quale titolo, quale tema? Uscire dalla stanza, correre, giocare, rotolarmi nell'erba, infangarmi, impolverarmi, stancarmi, ferirmi: è una trappola! Ancora niente svolgimento.

giovedì 17 febbraio 2011

Basta, adesso

Il maestro mi osserva stupito. I miei compagni scrivono con disperazione, i pennini graffiano e incidono pagine e pagine, schizzi d'inchiostro su banchi e piastrelle, pelli tatuate. Esclamo: “Le istruzioni costringono a violare quei candidi fogli, a imbrattarli, a porre un termine, una fine, a sottostare ai limiti del tempo e dello spazio. Io sono speciale e decido di violare la consegna.” Il maestro è impaurito: “A che scopo?” mi chiede con un filo di voce. Fisso la luce del sole, avverto il tocco di infinite particelle di pulviscolo. Non ho più nulla da dire.

sabato 22 gennaio 2011

Manuali

Categoria pericolosa, affascinante a tratti, da amore a prima vista. Come pericolosa è la rastrelliera di architettura: si può resistere ad un volume quasi cubico illustrato sui loft, ad esempio? Come adescano? Con i colori, lo spessore, il peso, il trucco perfetto, il silenzio, l'atmosfera dell'angolo, l'aspetto particolare di lettori e lettrici sulla panchina d'assaggio. Un'attrazione magnetica, primitiva, incontrastabile, opposta al clamore dei bestseller impilati.

domenica 9 gennaio 2011

Aria agitata

Come un'attesa di tempesta: pochi eventi eclatanti, a destra cercano di darsi una mossa, a sinistra sembrano spaventati dai propri insuccessi, i sindacalisti litigano, i post nei blog hanno costruzioni di frase dimesse, sparano nei comizi e uccidono, l'aria si raffredda, volteggiano strane domande, ovunque, pance piene, gadget infiniti e il via vai della folla inarrestabile. Tuttavia cariche elettrostatiche si accumulano, pensieri si condensano, colori si diluiscono e note scordano il ritmo.