lunedì 10 ottobre 2011

Dire, fare, bruciare

Per gli interi tre mesi dell'inverno del secondo anno di Università mi arruffai volontariamente su un modellino di nave in legno. L'avevo costruita qualche anno prima, svogliatamente e di fretta. Non ne avevo sgrezzato bene il fasciame che, invece di presentarsi liscio e ben curvo dove erano le convessità e le concavità di poppa e di prua, risultava scalinato e asimmetrico al tatto e alla vista. In coperta grezzi accessori e grate incomplete. Mancava tutto il cordame, la scialuppa non era verniciata e aveva grandi remi. Minuscoli fiori bianchi rampicanti, a tempera, mascheravano il mordente mal dato agli alberi macchiati di colla. Dovevo rifarla: due sere prima avevo visto lei per l'ultima volta. Un lavoro talmente odioso e lontano dal mio modo di pensare, che riuscivo ad essere nervoso e scontento già al solo pensiero di intraprenderlo. Dovetti limare di nuovo l'impalcatura dello scafo e traguardare contro luce più volte le ordinate. La sera prima mi aveva telefonato per sapere il numero del mio amico. Non avrei più ascoltato la sua voce. Col passare dei giorni lo scheletro della nave divenne tecnicamente accettabile, tuttavia i miei compagni di stanza odiavano quanto me quella strana penitenza. Almeno due delle cinque sere che restavo in città le passavo chino su quei legni, a inalarne le polveri, a subirne le schegge, a maledirne la fragilità. E parlavo, parlavo, anche da solo; o ascoltavo la radio. Uscivamo sempre insieme, noi quattro: l'amico e i tre compagni. Quando tornavamo ci accoglieva un odore acre di segatura e colla, e avvertivamo piccoli chiodi incastrarsi nelle suole.Dopo un mese terminai di applicare il fasciame. Lo levigai con cura usando carta vetrata via via più delicata. Con segatura fine impastata a colla riempii i rari interstizi tra le piccole assi. E poi lisciai ancora. Non mi piaceva il caldo della carta sfregata fino a far male, né l'odore pungente, quasi di bruciato. E neanche la simmetria delle due fiancate, né le curve ben fatte. Pure continuai per tre mesi: il ponte, i pilastri, la scialuppa rifatta. Parlavo meno, a ben osservare. Ascoltavo molto la radio, in effetti. Guardavo l'amico leggere le lettere di lei: stava sdraiato sul letto, immerso in fumo azzurro. Con una fetta di torta, o un panino.
Poi le grate, le balaustre, il timone, gli alberi ben lisci e rastremati. Uscivamo con i guanti e le sciarpe. Al cinema. O al biliardo. Più spesso a trovare compagni di studi. O compagne. Una sera lei andò a trovare il mio amico. Io non la incontrai, perché sporco di colla e segatura. Lui le era sceso incontro afferrando il cappotto, e si erano allontanati senza salire.
Poi le corde, di tre misure. Intrecciare le scale. Tenderle. Quando fu terminata, a metà marzo, ebbi voglia di incendiarla. Di prendere la cinepresa e filmarne al rallentatore la disfatta. Ma non ne feci nulla. Decisi di regalarla. Non la regalai. La misi in alto allo scaffale dei libri.
Lui lesse due lettere, una sera. Di lei, ovviamente. L'immagazzinai in alto, nell'armadio. Mi parve bellissimo riporre pinze, aghi, colla, pezzetti di legno, chiodi e avanzi in una cassetta da non aprire più. Era quasi primavera.