lunedì 28 dicembre 2009

Le menzogne

“Mi piacerebbe parlare di menzogne”, mi propone in tono di sfida l'amico d'infanzia, psichiatra e grande provocatore.
“Sono un esperto, di menzogne”, abbocco, mentre cerco di valutare il tempo necessario alle immense nuvole che ci sovrastano per soffocare, con il loro movimento, l'esorbitante chiarore della luce solare.
“Inizia pure", mi invita, con voce neutrale.
“Si deve mentire: a volte è necessario, per sé o per gli altri, o per saltare delle complicazioni, o per accorciare i tempi, o per agire meglio e più in fretta, o per evitare ripensamenti, deviazioni, labirinti, embricature. Ci sono grandi menzogne, grandiose menzogne, artistiche, geniali; e ce ne sono di avvilenti, cattive, cariche di disastri e ingiustizie, impreviste, casuali, ritardate, nel mucchio, contro un amico, contro un affetto, contro voglia, contro la propria natura esteriore, contro il desiderio", dico con tono accorato, dimesso, mentre tento di focalizzare una macchia di colore lontana.
“Oltre le intenzioni”, cerca di aiutarmi. "Preterintenzionale", aggiunge, come a meglio definire una denominazione imprecisa.
“Oltre quello che vuoi. Fatto sta che, dopo, dopo la conseguenza intendo, o dopo il vento di male che si abbatte, dopo è la rappresentazione del castigo, e la coscienza si ottunde, vagola, si ritrae, si annulla, si corrompe. Il corpo diviene un fardello insopportabile, in cerca di autopunizione, di espiazione, di confessione, si costituisce, si autodenuncia, non trova ascolto. Si vorrebbe tornare indietro, rifare ogni cosa, ricompiere gli atti. Gli stessi, le medesime cose", concludo, svuotato, attratto dalle ombre che si dilatano, rappresentate e annunciate dai sassi sul terreno che calpesto.
“Come ti puniresti?” mi chiede, cercando di vedere nella stessa direzione del mio sguardo.
“Punire? Io? Me stesso? Sei astuto. Certo: la punizione potrebbe venire da me”, rispondo.
“Non fraintendermi”, mi invita.
“Non ti fraintendo. Ogni cosa è chiara. Potrei riunire tutti quelli che ho conosciuto, senza distinzione, ogni persona rintracciabile, e tutti quanti ho colpito, e quanti mi stimano, e quanti mi odiano, e gli indifferenti. Li farei disporre in un grande cerchio, un grande cerchio vivente e brulicante, magari dopo averli stancati, affamati, indispettiti, maldisposti. E quindi inizierei a declamare, leggendo da un plico preparato senza reticenze, per non omettere nulla, spergiuri, falsità, strappi alle regole, aggiramenti, furbizie, astuzie, progetti, scorciatoie, raggiri, doppiogiochi. E dovrebbe esserci freddo e disagio, vento, e la fame aumentare, e i bisogni corporei infastidire, e la fretta, e gli affanni, in modo che il giudizio potesse divenire il peggiore, il verdetto il più malvagio e vendicativo, e perfino il migliore amico fosse spinto ad abbassare il pollice verso la sabbia, guardandomi con odio, con rancore, avido solo di una fuga al di fuori del mio tempo e del mio spazio, furente, inconsolabile, gridando al cielo il suo rancore indomabile”.
“Questa pare una punizione divina”, mi ferma l'amico.
“Umana. Saremmo noi stessi, capisci, non le nostre coscienze, non il nostro segno incorporeo, non la nostra pura mente. I nostri corpi fastidiosi, incartapecoriti, le nostre fattezze artificiali e disgregabili, il nostro odore” aggiungo, ormai abbacinato dal fulgore dell'alta costa che ci fronteggia, con appena la volontà di aggiungere, indicando la creta infuocata: “È l'inferno questo? Ditemi, amici, è la mia punizione questa parete pastosa?”
“Direi di calmarci un po'”, mi propone, spiazzato e attardato. “È meglio concludere”, suggerisce e continua, rivolto a me: “Che differenza con l'aldilà?”
“Tutte le differenze immaginabili. Sei ingenuo, fingi di non capire, ti distrai, vuoi sapere e non ascolti. La punizione è ottenibile soltanto calcando un terreno, avendo ancora un piccolo respiro a disposizione, o un istante di sofferenza del corpo, o una parvenza incombente di privazione d'affetto, o una lacrima possibile di pianto, d'acqua, mentre il sole è vinto, è oscurato, persistendo, ormai, soltanto nel riflesso stucchevole della cascata di rosso sanguigno, di umore vermiglio, di massa stemperata nel vento che toglie i suoni, che s'impossessa, che scompiglia i capelli e provoca lacrime e secchezza, che smuove le masse dei mari, innalza le onde, lancia spruzzi nel cielo, li trasporta, li sorregge, a colpire le vesti, e il volto indifeso, che penetra nell'intimo, si schiaccia contro la terra amaranto rappresa e luccicante che si disgrega, diviene untuosa, friabile, cedevole, vischiosa e impercorribile”.
“Sai una cosa?” mi chiede l'amico dopo una pausa interminabile.
“... cosa?” replico sottovoce.
“Sarebbe stato meglio non parlare di menzogne”.