sabato 9 ottobre 2010

Venezia, Accademia

Mi mostra uno scorcio di mondo da mozzare il fiato, intenta a scrutare nei miei occhi ciò che lei già conosce, scisso nel maggior numero di elementi possibili, tramite il maggior numero di sotterfugi ricreabili, con attenzione. Estrema sfumatura del tramonto, lento moto incantevole di acque e ali di gabbiano, profilo complesso di città che galleggia senza materia, vittima d'incantesimi che la sostengono sull'orlo della disgregazione, rassicurante e aleatoria, potente e fragile come petalo di cristallo sottile, in bilico su soffi divini, contro tinte sfumate di un cielo che incombe e ridimensiona. Osservo, mi lascio assorbire, mi estranio, sprofondo nei suoi occhi, che non ho mai cercato, timoroso, e districo riflessi, aure, emanazioni cromatiche, lavorii della mente, cercando spiegazioni nell'atteggiamento delle labbra, nella tensione delle ali del naso, nella postura delle mani. Per istanti. Mi spinge appena, come preoccupata, con leggero rimorso, intimorita. Sono lontano, mi lascio condurre via, senza resistere; occhi che percorrono muri grigi e piatte lastre di pietra, e oggetti di metallo incastrati in quelle pietre, e un piccolo ponte in legno, riscosso appena dal vento, d'infilata, sopra un rio. Si ritrova sola, senza verifica, a riordinare idee, inconsapevole, indifferente; ferma, in ascolto. Volge lo sguardo, è confusa, non riconosce scorci, le pare d'essere altrove. Non c'è profumo. L'odore è salmastro, i suoni estranei. Un equivoco, un inganno della mente. Nell'acqua scorre una gondola, si accendono luci artificiali.